Etruria: i Boschi sapevano del crack. Anzi, se la prendevano con Renzi

Nelle relazioni del Cda ce n’è una che accusava il governo (dove sedeva la figlia del vicepresidente della banca) di aver peggiorato l’economia italiana facendo perdere 500 milioni all’istituto di …

Nelle relazioni del Cda ce n’è una che accusava il governo (dove sedeva la figlia del vicepresidente della banca) di aver peggiorato l’economia italiana facendo perdere 500 milioni all’istituto di credito aretino.

Quasi 500 milioni di euro di perdite. E per giunta in soli tre mesi: ottobre, novembre e dicembre 2014. La Banca popolare dell’Etruria e del Lazio era di fatto in coma alla vigilia del decreto di Matteo Renzi che la includeva per un pelo (e sulla base degli unici dati conosciuti, quelli al 31 dicembre 2013) fra le candidate alla trasformazione in società per azioni. Eppure quei 500 milioni di perdite di differenza che avrebbero comportato l’esclusione dell’istituto di credito dalla lista delle beneficiarie del decreto legge (vedi soglia minima di attivi) erano sicuramente ben noti al vertice della banca popolare, dal presidente dell’epoca, Lorenzo Rosi al suo vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre del ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali Maria Elena.

Erano stati loro infatti a provocare quel maxi impoverimento dei conti della banca, attraverso una colossale rettifica dei valori per deterioramento dei crediti: 621,6 milioni di euro. Un dato che non era noto ad altri che al consiglio di amministrazione dell’Etruria, visto che i conti 2014 non sono mai stati resi noti nemmeno per sommi capi, e mai divulgati al mercato nemmeno successivamente al commissariamento dell’istituto deciso nel febbraio 2015 dalla Banca d’Italia e controfirmato dal ministro dell’Economia, Pier Luigi Padoan.

Quei tre mesi hanno infatti cambiato radicalmente la fotografia che si conosceva dell’Etruria, perché l’ultima comunicazione fatta al mercato (a novembre 2014), e cioè la trimestrale al 30 settembre 2014, raccontava ancora tutt’altra verità. Le rettifiche di valore per crediti deteriorati ammontavano a 217,5 milioni di euro, una cifra certo superiore ai 174 milioni già contabilizzati nella semestrale al 30 giugno dello stesso anno, ma non così dissimili da quel che era avvenuto l’anno precedente: 292 milioni di euro. Il risultato netto era sì negativo più del 2013, ma comunque contenuto in una perdita di 127 milioni di euro.

È clamoroso, se si pensa a papà Boschi al vertice di quella banca, ma del peggioramento dei conti creditizi nei primi nove mesi 2014,il cda della Etruria aveva dato colpa nella sua relazione in buona parte a Matteo Renzi e al suo governo, che avevano peggiorato la situazione economica italiana (danneggiando così indirettamente pure la popolare aretina) rispetto al periodo più felice in cui a guidare l’Italia c’era Enrico Letta. Parole anche di papà Boschi, questa volta decisamente in conflitto di interesse con la figlia: «Dopo la stabilizzazione dell’attività nella seconda metà del 2013, l’economia italiana è tornata ad indebolirsi nella primavera di quest’anno per il calo degli investimenti.

Nel secondo trimestre 2014 il Pil italiano è sceso dello 0,2% rispetto al primo trimestre, la flessione dell’attività ha interessato tutti i maggiori comparti produttivi (…) Nel terzo trimestre 2014 il Pil avrebbe segnato una nuova lieve flessione (…) Il recupero della fiducia di famiglie e imprese,in atto dalla fine dello scorso anno, si è interrotto nell’estate…». Con un governo come quello Renzi-Boschi che stava deprimendo l’economia in modo così sensibile, ovvio che Etruria aveva i suoi bei guai: «le condizioni del mercato del credito rispecchiano tale scenario e le politiche di prestito delle banche restano ancora frenate dall’elevato rischio di credito (…) La dinamica decrescente che si osserva a livello di sistema interessa anche il gruppo Banca Etruria…». Però i manager della banca si auto-assolvevano, dicendo anzi di avere diminuito il rischio di credito complessivo: «grazie agli accantonamenti effettuati, il grado di copertura complessivo delle esposizioni non performing è pari al 43,2%, in aumento rispetto al 38,9% del 31 dicembre 2013 e al 42,9% di giugno 2014, confermando il trend di estremo rigore seguito dal gruppo in tale ambito».

Non mancano le notizie in quella relazione al mercato: il cda che dopo avere rifiutato l’offerta della Banca popolare di Vicenza, ha dato mandato al presidente Rosi di ricercare un altro partner utilizzando come advisor finanziario Mediobanca, un progetto di trasformazione in società per azioni con il «contestuale ingresso nella compagine sociale di un partner bancario di controllo (…) Progetto fortemente innovativo nel contesto del mercato bancario italiano, in linea con le indicazioni della Banca di Italia alla quale è stato illustrato nelle sue linee essenziali». Un quadro quasi idilliaco quello offerto a novembre, e distante anni luce da una realtà che sicuramente era ben conosciuta dai vertici della banca, a meno che la folgorazione sulla necessità di aumentare di circa 400 milioni le rettifiche per deterioramento crediti non fosse nata da una illuminazione nel periodo di Natale di quell’anno.

Fosse stato reso noto al mercato il quadro reale dei conti della banca, non sarebbe probabilmente accaduto quel che avvenne appena nel gennaio 2015 si diffusero le prime voci sul decreto Renzi per le popolari. Cosa accadde fu ben raccontato dal presidente della Consob, Giuseppe Vegas, in una audizione alla Camera dell’11 febbraio 2015: «Dal 3 gennaio al 9 febbraio 2015 i corsi delle banche popolari sono saliti da un minimo dell’8 per cento per UBI a un massimo del 67 per cento per Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, a fronte di una crescita dell’indice del settore bancario dell’8 per cento circa; anche i volumi negoziati hanno fatto registrare consistenti aumenti». Tutti dunque stranamente a puntare solo sull’Etruria dal 16 gennaio 2015. Quella è una data magica.

Al Nazareno il premier Renzi annuncia per la prima volta la sua intenzione di fare un decreto sulle popolari. Lo stesso giorno a Londra si chiude un seminario di investitori proprio sulle banche popolari italiane, organizzato dal Fondo Algebris di Davide Serra. Ancora una volta è Vegas in quell’audizione a raccontare le voci sui giorni successivi a quel 16 gennaio: «indiscrezioni sulla operatività sospetta sulle azioni popolari che sarebbe stata registrata proprio con ordini di acquisto, poi seguiti da decise vendite, sulle azioni delle popolari nella City». Se avessero conosciuto i conti reali dell’Etruria, si sarebbero buttati tutti a comprare quei titoli?

Oppure c’è una seconda ipotesi che lo stesso Vegas buttò lì citando un articolo del Sole 24 ore del 27 gennaio 2015, dove si sottolineava «che la performance fatta registrare delle azioni delle Banche Popolari a seguito del Decreto-legge del governo di riforma del settore ha comportato un rialzo medio delle popolari del 20% che, come sottolineano gli analisti da sempre, equivale in media allo sconto del corso azionario di una Popolare rispetto ad una S.p.A». E il presidente della Consob chiosò minuzioso: «In particolare, però l’articolo sopra richiamato sottolinea il rialzo di Banca Popolare dell’Etruria che nella settimana di annuncio della riforma ha registrato un rialzo del 67%. L’articolo sottolinea che o qualcuno ha speculato in anticipo sull’arrivo del decreto (…) oppure il mercato ha premiato tra le Popolari, la banca che più di tutte farà da preda, viste le condizioni del suo bilancio».

Ecco, la seconda ipotesi è diametralmente opposta: quegli ultimi tre mesi, con i crediti svalutati così abbondantemente, erano serviti a ripulire la preda per un misterioso acquirente. Che sapendo tutto, iniziava a buttarsi nella mischia. E ci sarebbe riuscito, non fosse intervenuta la Banca di Italia (non il governo) a rovinare la festa con il commissariamento…

di Franco Bechis

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Libero Quotidiano

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